Realtà storica e leggenda si
intrecciano
nella Grotta dei Pipistrelli: si narra, infatti, la leggenda
di un favoloso Re Barbarossa che, dopo aver distrutto una chiesa
ricavata in una grotta, vi seppellisce sua figlia insieme ad
un misterioso tesoro.
La speranza di ritrovare la preziosa ricchezza del Barbarossa
spinge,
nel corso dei secoli, contadini e pastori a frequentare la grotta e a devastarne,
purtroppo, il deposito archeologico e il suo ricco contenuto di significativi reperti.
Il leggendario Re Barbarossa
Raffigurazione di S. Michele
Lo stesso scopritore, Domenico
Ridola, nella prima esplorazione del 1872 rinviene resti
di un altare, tracce di affreschi ed ossa umane, segni, quindi,
di un probabile utilizzo durante il Medioevo come chiesa rupestre.
Una memoria, citata da Ridola, dà infatti
notizia di un principe longobardo che nel 774
dona "ecclesiam SS.
Angeli et Mariae quae posita est
in galo nostro Materae..." (la
chiesa di S. Angelo e Maria che è posta
in un nostro bosco di Matera).
La
tradizione
di dedicare le chiese rupestri
agli arcangeli, soprattutto a
S. Michele, affonda le sue radici
nella notte dei tempi: gli antri,
le grotte, infatti, sono considerati
come le sedi del maligno, del
demonio. Gli angeli vengono quindi
posti a difesa, a protezione,
soprattutto se la grotta è in
montagna, di fronte al mare o
lungo una gravina.
La venerazione
per S.
Michele,
santo guerriero, si rafforza quando giungono
nel Sud
Italia prima i Longobardi (VII e VIII sec.
d.C.)
e in seguito i Normanni (XI sec. d.C.), popoli
di recente
conversione alla religione cristiana.
S. Michele,
infatti,
viene definito per queste
ragioni anche "santo
barbaro".