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Per la malaria, che i contadini chiamavano semplicemente freve, febbre, l'unico responsabile era l'ambiente: i miasmi delle paludi e delle acque stagnanti, l'abuso di more, frutto tipico dei cespugli delle zone incolte, che crescono lungo le acque stagnanti. Il chinino, unico efficace rimedio, era visto con molto sospetto dai contadini, in questo sostenuti dai farmacisti e dai datori di lavoro: i primi si sentivano danneggiati dalla distribuzione gratuita del chinino di Stato, che aveva moltiplicato i centri distributivi, i secondi erano assolutamente indifferenti alla somministrazione del farmaco ai braccianti ed al miglioramento delle condizioni igieniche.
I contadini si affidavano alle erbe, ai bagni freddi, a clamorose ubriacature - il vino era una sorta di disinfettante - e addirittura all'ingestione di cimici: "...tutto ciò che è sporco e brutto sembra al basso popolo fornito di virtù medicatrice..." (Riccardo Maturi). Un elemento complementare, ma che non mancava mai nelle pratiche terapeutiche, era il segno di croce, che accompagnava anche le formule di scongiuro. Esso era ripetuto sempre in numero dispari. Nel vicinato, dove la comunicazione gestuale, mimica, era fondamentale, il segno della croce, declamato o accennato con cadenzata gestualità, era l'atto individuale e corale forse più ripetuto e ricorrente. Erba usatissima per le tisane ma anche per la rimarginazione delle ferite era la malva: l'esistenza nei Sassi di un rione Malve ne testimonia la diffusione ed il largo uso. |
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